PFM: Ho Sognato Pecore Elettriche

PFM: Ho Sognato Pecore Elettriche

Quando si parla della Premiata Forneria Marconi, si ricorda sempre che quella fondata nei primi anni Settanta da Franz Di Cioccio, Franco Mussida, Flavio Premoli, Giorgio Piazza e Mauro Pagani è stata l'unica band italiana a ottenere un certo successo sul mercato anglosassone. Oggi, a cinquant'anni da quello straordinario periodo in cui il prog italiano era riuscito a "sfornare" gruppi come Area, Banco del Mutuo Soccorso, Orme, Osanna, Delirium, New Trolls ecc, la PFM continua a ricevere consensi e premi a livello internazionale. Nel nuovo doppio album italiano/inglese Ho Sognato Pecore Elettriche/I Dreamed of Electric Sheep, uscito per Sony Music Entertainment su cd, vinile e digitale, gli inossidabili Franz Di Cioccio e Patrick Djivas hanno coinvolto, insieme ai loro vecchi compagni di viaggio Lucio "violino" Fabbri e Flavio Premoli, i giovani componenti della PFM in formazione live: Alessandro Scaglione (tastiere e cori), Marco Sfogli (chitarra e cosi) e Alberto Bravin (tastiere, chitarrra e seconda voce). A Di Cioccio e Djivas abbiamo chiesto di raccontarci come è nato questo nuovo progetto.

PC/FS Qual è il progetto musicale che ha portato alla realizzazione del disco?

Patrick Djivas Il nostro obiettivo era quello di fare un disco “suonato”, ovvero libero, in cui non ci dovessimo porre il problema di essere in una sala di registrazione in cui dover seguire regole precise. Nella pratica abbiamo lasciato molto spazio ai solisti e abbiamo curato di più le armonizzazioni e le modulazioni, anche nei brani più semplici. In realtà da quando facciamo musica lavoriamo in questo modo e raramente ci fermiamo alla prima soluzione: tra le nostre regole, da sempre, c’è quella di creare un’evoluzione, non fermarsi alla ripetizione.

Franz Di Cioccio Quando abbiamo pensato di fare questo disco, non avevamo brani da cui partire perché prima del lockdown eravamo impegnati con la lunga tournée sulle canzoni di Fabrizio De André. Quando è arrivata la pandemia, ci siamo guardati in faccia e ci siamo detti: “Cosa facciamo adesso?”. E allora abbiamo iniziato a lavorare sul disco senza materiale già pronto. Non avevamo l’idea di realizzare un album prog o rock, ma l’obiettivo di trasmettere emozioni. Questo è un disco senza schemi attraverso il quale vogliamo far entrare l’ascoltatore nel nostro mondo e ci stiamo accorgendo che l’album piace a persone che ascoltano generi molto diversi. C’è poi il messaggio che vogliamo trasmettere, partendo da un interrogativo: siamo ancora umani o la tecnologia ci sta portando in un altro mondo? Non siamo contro la tecnologia in sé, ma contro l’abuso che facciamo di quello che abbiamo tra le mani. 

PC/FS Quali sono gli stimoli musicali esterni che continuano a darvi la voglia di suonare e produrre album?

PD Gli stimoli arrivano costantemente. La difficoltà sta nel riuscire a individuarli e nell’essere in grado di tradurli in qualcosa che abbia un senso. L’ispirazione è solo una piccola parte, direi un 1%, e può arrivare da qualunque cosa: dalla sequenza di due accordi, da una bella ragazza che passa per strada, da una macchina, da un vecchio disco... Ma questo non basta: ci deve essere l’altro 99%, fatto di sudore e lavoro. Abbiamo sempre cercato di portare ogni minimo stimolo al limite delle nostre possibilità. Sopra di noi c’è un’entità che è la PFM: è una responsabilità che abbiamo. Io e Franz siamo quelli che devono difenderla.

FDC Io e Patrick siamo molto diversi e questo è un vantaggio: lui è molto preciso e pragmatico per quanto riguarda la musica, io sono più estroverso. Abbiamo questa divergenza che però è anche convergenza. La nostra regola è chiara: se una cosa non piace a entrambi allo stesso modo, non se ne fa nulla. Quando io ho un’idea, gliela sottopongo e grazie al suo intervento viene accelerata. E viceversa. Noi creiamo mentre ci confrontiamo. E l’album rappresenta quello che siamo. Parte con “Mondi paralleli”, che è un brano strumentale, e si conclude con una jam-session. Siamo felici di essere così.

PC/FS Nel momento in cui avete realizzato il disco avete anche pensato a come sarebbe arrivato agli ascoltatori? Magari alle nuove generazioni...

PD Non ci si deve mai porre il problema di fare musica per qualcuno, se l’obiettivo è durare nel tempo. Quando eravamo in America negli anni ’70 ci avevano stato chiesto di fare un disco “mediterraneo” e noi ne abbiamo fatto invece uno jazz. Sul momento, ci siamo tagliati le gambe: il pubblico, specialmente in Italia, non era pronto. Chissà, magari la PFM sarebbe diventata una cosa ancora più importante. Ma a 40 anni di distanza da quell’episodio noi siamo ancora qui perché abbiamo sempre fatto quello che volevamo noi. Le uniche persone che vogliamo accontentare sono Patrick Djivas, Franz Di Cioccio e i ragazzi che suonano con noi.

PC/FS A proposito dei ragazzi, come avete coinvolto Marco Sfogli, Alessandro Scaglione e Alberto Bravin nel lavoro sul disco?

PD Abbiamo fatto tutto a casa mia, nel mio studio, su computer Mac con scheda Presonus e DAW Studio One. Franz abita a 50 chilometri da me e faceva avanti e indietro ogni giorno. Solitamente Franz, che è molto istintivo, butta giù le sue cose come gli vengono; io aggiungo le armonie e creo una linea di basso, che è il conduttore di tutto l’arrangiamento. Marco abita a Cremona e per lui era difficile venire da me: quando succedeva ascoltavamo i brani, magari faceva qualcosa sul momento o ci lavorava quando tornava a casa. Ma avevamo già le idee molto chiare. Sono musicisti di prima fascia: capiscono immediatamente quello di cui c’è bisogno. E ormai siamo un gruppo affiatato. Nel disco precedente, Emotional Tattoos, ci conoscevamo poco: adesso abbiamo alle spalle centinaia di concerti insieme. Ognuno ha più libertà e dà un apporto maggiore, perché c’è più responsabilità.

FDC Tutti i musicisti entrano nella parte e devono esprimere loro stessi perché c’è già un’ossatura forte. L’esempio più lampante è la jam-session finale, in cui ognuno ha il proprio momento creativo. C’è anche una parte di divertimento e questa cosa si nota chiaramente quando suoniamo dal vivo. Anche un disco deve avere il sapore del live. Nello studio si cerca sempre di fare tutto alla perfezione: ma l’uomo non è perfetto...

PC/FS Nel disco parlate di mondi paralleli. Vi riferite anche alla musica?

FDC Abbiamo sempre preso ispirazione dagli altri musicisti: è affascinante quando qualcuno propone un mondo artistico diverso dal tuo. Penso a quando negli Stati Uniti abbiamo avuto a che fare con Frank Zappa: vuoi per forza entrare in quel mondo, una volta che lo incontri. La frequentazione porta ad aprire la mente. E questo disco ci piace particolarmente perché rappresenta quello che siamo noi oggi, è figlio di tutto quello che abbiamo fatto.

PD Ogni musicista all’interno della PFM è diverso dagli altri: non arriviamo dallo stesso mondo, ognuno porta qualcosa di diverso. E nella PFM è sempre stato così: chi arrivava dalla classica, chi dal jazz, chi dal rock... E non c’è mai stato uno scontro di visioni. Siamo musicisti molto duttili: abbiamo imparato a suonare quando non esistevano metodi, quando avevamo 14 o 15 anni era difficilissimo diventare strumentisti. L’unica cosa che potevamo fare era ascoltare tantissima musica. Questo ci ha permesso di trattare generi totalmente diversi tra loro ma sempre con credibilità: jazz, classica e anche il metal.

PC/FS Nel disco ci sono anche due ospiti importanti, Ian Anderson e Steve Hackett. Com’è stato il loro approccio?

FDC Con Ian Anderson avevamo fatto un concerto bellissimo a Roma ed è rimasto tra noi un bel rapporto: quando suoni insieme, si crea un momento catartico e a lui la PFM era rimasta dentro. Con Steve Hackett condividiamo la stessa casa discografica: ci eravamo visti più volte a Milano e avevo fatto jam-session insieme. In questo disco volevamo inserire qualcosa di particolare e pensando a cosa potesse funzionare, abbiamo pensato a loro due.

PD Quando abbiamo vinto il premio di Band of the Year all’International Prog Award del 2018, eravamo al tavolo con Steve Hackett. Nel momento in cui siamo stati annunciati come i vincitori, ha fatto un salto enorme: era più contento lui di noi. Gli piacevamo. Nel disco, sia lui sia Ian Anderson hanno fatto quello che dovevano fare, ma rispettando il brano, senza strafare: non hanno fatto pesare il loro status. Hanno dimostrato un grande rispetto per la musica insiemeal la loro qualità: d’altronde, la reputazione non nasce dal nulla.