Ogni società, a tutte le latitudini, conosce il valore e l’importanza del rito d’iniziazione, di quel passaggio che separa l’infanzia dalla vita adulta, l’educazione dalla sua applicazione, l’apolide dal cittadino, e così via. Un varco obbligato che costringe ogni membro della comunità a bussare alla vita attraverso la stessa porta, provando davanti a tutti che il momento è arrivato. Perché essere iniziati alla vita vuol dire in fondo mostrarsi pronti alle sue incertezze, ai suoi pericoli, alle sue zone d’ombra, compiere il gesto estremo del consegnarvisi con sicurezza, mettersi alla prova senza paura.
Certo, le forme assunte da queste prove sono le più diverse. Per entrare nel novero dei “grandi”, sull’Isola di Pentecoste (Vanuatu), gli adolescenti della tribù Sa si “tuffano a terra” da torri di legno alte più di 30 metri, legati solo a una manciata di liane. Ma, senza spingerci a 9 ore di fuso orario di distanza negli spazi infiniti del Pacifico Meridionale, anche i nostri antenati greci avevano i loro rituali. A Sparta, l’agoghé, una sorta di ferrea educazione di Stato erogata dalla polis per i suoi giovani, culminava con la cosiddetta krypteia, un allontanamento temporaneo dalla comunità che costringeva gli iniziati a difendersi dalla violenza degli elementi naturali privi di armi, provviste o qualsivoglia aiuto.
Anche il mondo della musica è una comunità, organizzata in una complessa rete sociale. Come è logico che sia, allora, la dimensione dell’iniziazione coinvolge e riguarda anche i musicisti. Ogni band, ad esempio, ha il suo modo di accogliere nuovi membri a bordo con metodi più o meno estrosi: giochi da caserma, liturgie alcoliche e tante altre prove più o meno edificanti che è meglio custodire gelosamente tra persone che condividono lo stesso palco.
In un certo senso, è un rito di iniziazione anche quello che, poco prima di un live, permette agli artisti di trovare la giusta concentrazione, di calarsi nella parte, di prepararsi a dare tutto ancora una volta. Keith Richards, come è noto, ha il suo Shepherd's Pie da consumare, i Mumford & Sons ritrovano energie positive bruciando del palo santo (un incenso sudamericano), gli Eagles avevano la loro nenia country, Seven Bridges Road, da cantare a cappella tutti insieme (lo si vede bene nel docufilm History of The Eagles, di Alison Ellwood, 2013), e così via.
A un livello più profondo, però, esiste un percorso iniziatico ben più importante nel nostro ambito, che consiste nel passaggio da semplice ascoltatore a musicista. Come si diventa esecutori, cantautori, performer oggi? Cosa fa scattare la scintilla e da dove viene l’innesco? Qual è il primo strumento di fascinazione che spinge a “bussare alle porte della musica”?
Partiamo da alcuni punti fermi, ricordando i principali canali attraverso cui tradizionalmente, nel nostro Paese e non solo, si arriva a diventare musicisti. Sicuramente un ruolo sostanziale può ancora oggi essere giocato dalla famiglia. Essere “figli d’arte” è un catalizzatore naturale difficilmente superabile nella sua forza. Crescere avendo strumenti musicali in giro per casa, o comunque guardando all’esempio dei propri parenti e della loro cerchia di frequentazioni, costituisce un imprinting fortissimo. Non solo, però. Avere musicisti in famiglia può voler dire anche avere un primo mentore sempre a disposizione e, soprattutto, prendere subito sul serio la professione di musicista, considerarla un’occupazione con la stessa dignità di un qualsiasi impiego in ufficio o in fabbrica. E questo può valere tanto per chi è figlio d’arte propriamente detto, quanto per chi è “figlio di un Dio minore”, cresciuto tra musicisti che non hanno raggiunto la fama. L’unica differenza è che i primi dovranno, prima o poi, somatizzare l’eredità ingombrante dei propri genitori. Lo ha espresso bene, in un’intervista, Filippo Graziani: “La prendo come i vichingi. Nella cultura nordica ti chiami Ragnar Petersson, Ragnar figlio di Peter. Io uguale, sono Filippo Ivansson, figlio di Ivan”.
C’è poi il canale della scuola e dei conservatori. Un canale che, stando alle ultime rilevazioni, funziona ed è in salute. In Italia, abbiamo 73 conservatori di musica pubblici, con un’offerta didattica che si è andata ampliando sempre di più nel tempo e che ora abbraccia corsi di canto, esecuzione con strumenti, composizione musicale, direzione d’orchestra, direzione di coro e per tecnici del suono. A livello di repertorio musicale, la percezione un po’ limitante del conservatorio come dimora esclusiva per la musica classica è in via di superamento, grazie al coinvolgimento sempre più rilevante di percorsi jazz e popular music. Il trend degli iscritti, dal 2017/18 al 2020/21, è stato sempre in crescita, arrivando a un massimo di 24.526 nuovi iscritti. I dati del 2021/22, gli ultimi resi disponibili dal ministero, parlano di un’altra annata con oltre 24.200 iscritti.
Non bisogna poi dimenticare che, con il D.Lgs. 60/2017, le scuole secondarie di primo grado hanno acquisito in Italia la facoltà di attivare percorsi a indirizzo musicale. Si sta dando così ulteriore stimolo a imparare la pratica di uno strumento a tutti quei ragazzi che sviluppano un precoce amore per la musica. Lo si sta facendo, tra l’altro, immergendoli in un ambiente di classe, nel quale imparano a relazionarsi subito musicalmente con gli altri. Con il “privilegio”, inoltre, di poter esprimere la propria inclinazione verso un determinato strumento. Un qualcosa di scontato in altri sistemi scolastici (vedi gli Stati Uniti d’America), ma non nel nostro Paese, dove il binomio flauto/diamonica è stato largamente imposto a generazioni di alunni.
Tutti questi segnali positivi, che farebbero legittimamente pensare a un piccolo “baby boom” di musicisti in preparazione, si scontrano purtroppo con la realtà dei dati che ci racconta invece un alto tasso di abbandono della pratica musicale da parte dei ragazzi dopo gli anni di studio nella scuola pubblica (fino al liceo musicale compreso). È proprio la fascia 14-19 anni, infatti, quella nella quale si rileva statisticamente il tasso di abbandono più elevato (oltre il 25%, quindi più di 1 ragazzo su 4). Da un lato, la scuola pubblica deve continuare a migliorarsi se vuole diventare più efficace, nel tempo a sua disposizione, nel convincere i ragazzi a non lasciarsi musica e strumenti alle spalle. Dall’altra, sicuramente l’istituzione scolastica e i suoi programmi non rappresentano un modello attrattivo per studenti che, come vedremo più avanti, hanno sempre più spesso dei punti di riferimento musicali diversi rispetto a quelli che tradizionalmente popolano la didattica. Concetti come rap e beatmaking faticano a decollare tra i banchi di scuola.
Al di là dell’offerta pubblica, una grande importanza ha in Italia la formazione privata in ambito musicale. Le famiglie continuano ad affidarsi ben volentieri alle lezioni private, che rappresentano una tappa della propria formazione per il 40,7% dei musicisti italiani, e alle scuole di musica, frequentate dal 13,2% degli attuali consumatori di strumenti musicali, contro il 10,9% proveniente dalla scuola pubblica (dati DismaMusica 2022). Negli ultimi anni, inoltre, si osserva un nuovo trend di crescita relativo al ritorno o all’avvicinamento alla pratica musicale di over 40, dovuto proprio alla diffusione capillare sul territorio delle scuole private e alla loro capacità di intercettare questa nuova domanda presente sul mercato.
Se il funzionamento dei canali descritti sinora - famiglia e scuole - è piuttosto stabile e intuitivo nelle sue dinamiche, il discorso cambia se proviamo a indagare altre strade verso l’iniziazione musicale. Ci riferiamo a tutti quei casi in cui, l’influenza di alcune reti sociali, come le proprie amicizie, o la presenza di oratori, sale prove, bande rionali e aggregatori simili nel posto in cui si cresce, si combina al rapporto personale con la musica e i media, creando i presupposti necessari per scegliere di imbracciare uno strumento.
I social network stanno prepotentemente entrando in questo scenario, già reso molto fluido e mutevole dalle tendenze del mercato discografico. Il risultato? È sempre meno scontata e più imprevedibile la scelta del primo strumento musicale da imparare.
Fino agli anni Ottanta, il culto delle band e dei cantautori nel nostro Paese generava soprattutto chitarristi, tastieristi, bassisti e batteristi. Persino i DJ italiani di quelle generazioni venivano tipicamente da un passato alle tastiere. L’affermarsi di Mtv e l’esplosione dell’elettronica iniziarono poi a togliere “fette di mercato” a quegli strumenti e a far nascere, ad esempio, i DJ “purosangue”, come Gabry Ponte degli Eiffel 65, la cui carriera è iniziata nel 1990, all'età di 17 anni, lavorando subito come resident in alcuni locali della sua Torino.
A seguire, sono arrivati i talent in tv, a partire da Saranno Famosi (oggi Amici di Maria De Filippi) nel 2001. Tantissimi teenager sono cresciuti guardando ore di format televisivi che mescolavano musica e altre arti ai reality show, immedesimandosi nelle difficoltà, nei fallimenti e nei successi repentini dei loro idoli, il più delle volte cantanti. Così l’avvicinamento alla musica, nell’ultimo ventennio, si è mosso in decisa direzione voce-centrica in Italia. Basti pensare alle migliaia di cantanti che hanno partecipato, dal 2008 in poi, alle audizioni di programmi come X-Factor, The Voice e simili.
Sia ben chiaro, tra gli strumenti entry level, la chitarra e la famiglia delle tastiere continuano a farla da padrone. Guardando ai dati raccolti negli ultimi anni da StrumentiMusicali.net che, detenendo una fetta di mercato importantissima in Italia rappresenta un campione statistico più che rilevante, si può notare però la crescita percentuale di microfoni, loop station, controller MIDI pad/drum. Viene naturale pensare che almeno parte del merito di tale corsa alla varietà sia da rintracciare nelle piattaforme social e in quella che qualcuno definirebbe la tiktokizzazione dei contenuti musicali.
I giovani appassionati di musica oggi non hanno più a disposizione solo gli artisti che performano in studio, dal vivo e in tv come punti di riferimento. Su TikTok, Instagram e YouTube, trovano decine di influencer e content creator focalizzati sull’interesse “musica” che, in una continua rincorsa all’originalità del contenuto, mostrano approcci diversi dallo standard. Solo per citarne qualcuno a campione: c’è Pietro Morello - già intervistato su queste pagine - che mostra le sue esecuzioni al piano, ma anche tantissimi altri strumenti recuperati in giro per il mondo tra una missione umanitaria e l’altra; per chi ama la techno, c’è Stella Bossi, la DJ italo-tedesca che mette insieme stile di vita berlinese, danza e beat; e ancora lo street sax di Daniele Vitale o le percussioni senza confini di Damat Drummer. Per non parlare poi di tutti quei musicisti che, alla pratica musicale, abbinano una passione “maniacale” per gli strumenti e creano tutorial, review e consigli per gli acquisti: penso ad Alessandro “GasTube” Barbetti, Marco Capaldo, Luca Michelotti, Danilo Vicari, Luca Milieri, Bernardo Grillo, Andrea Di Giorgio, Riccardo “Febbre da Chitarra” Rizzo e tanti altri.
Il risultato di un tale bombardamento di contenuti potrebbe essere quello di un’ulteriore crescita di menti e anime musicali. E sarebbe decisamente il più piacevole degli effetti collaterali del mondo complesso dei social network. Certo è che la scintilla rimane tale, se poi non trova legna da ardere. In altre parole, è responsabilità di chi musicista lo è già da un po’ non storcere il naso di fronte a chi arriva allo strumento musicale per vie che appaiono traverse. Anzi è necessario lavorare alla costruzione di ulteriori spazi di condivisione musicale, come festival, concerti, seminari, jam session, per non ricadere nella solita vecchia trappola della guerra tra generazioni. Davanti al coraggio dell’iniziato che bussa alla porta, sarebbe un peccato non ci fosse nessuno dall’altro lato ad aprire e a svelare il paradiso, come in quella vecchia canzone di Bob Dylan.