Siamo giunti al quarto numero di SMMAG! ed è arrivato il momento di far tappa in quella che considero essere la prima fase del processo di produzione: il recording. Sì, so che state pensando che a precedere questa fase ci siano altri momenti creativi quali scrittura, arrangiamento, prove, sudore e lacrime, ma sono solito racchiudere queste attività all’interno di una fantomatica “fase 0” del processo di produzione, ossia la pre-produzione (che magari affronteremo più in là). Faremo quindi finta di aver già pronto il nostro brano, di essere convinti (seeh, ti piacerebbe) di ciò che insieme ai nostri bandmates abbiamo scritto e collaudato nel tempo e siamo pronti a entrare in studio carichi di aspettative.
Ovviamente “recording” è un termine molto generico. È opportuno specificare che in questo articolo non considererò tutto ciò che viene acquisito via MIDI, attraverso software instruments o collegando strumenti in linea. In queste due pagine analizzerò solo e soltanto strumenti (più o meno acustici) registrati con uno o più microfoni e, in particolare, la batteria.
Partiamo dalle basi..
Il microfono è lo strumento incaricato della trasduzione, ossia la conversione da pressione sonora a energia elettrica. In poche parole, converte il suono, che è una grandezza fisica di natura meccanica, in elettricità. Le caratteristiche costruttive dei vari microfoni consentono di classificarli in diversi gruppi o famiglie sulla base della tipologia di trasduzione che operano, la loro capacità di rispondere alla sollecitazione della sorgente sonora (sensibilità dinamica), la risposta in frequenza e, per quello che ci interessa in questo piccolo spazio, la direttività, ossia l’angolo di ripresa dei microfoni. La direttività (o direzionalità) è un parametro fondamentale che, rappresentato attraverso i cosiddetti diagrammi polari, ci mostra la sensibilità del microfono sulla base della posizione della capsula all’interno del campo sonoro.
Perché è importante un corretto posizionamento dei microfoni?
Spesso diciamo che la musica non è solo matematica, fisica, geometria o qualsivoglia scienza esatta, ma in questo caso più che mai, conoscere e misurare lo spazio è di fondamentale importanza per ottenere il miglior risultato possibile in fase di registrazione. Difatti, un buon posizionamento dei microfoni (insieme alla scelta degli stessi) fa più del 50% del lavoro, consentendo di limitare le problematiche in post-produzione, di avere dei suoni già accurati e di raggiungere un livello di produzione quanto più elevato possibile. È sufficiente cambiare la distanza o l’inclinazione di un semplice Shure SM57 rispetto al cono del nostro ampli per avere suoni totalmente differenti tra loro: provare per credere! Insomma, la posizione del microfono funge da equalizzatore già in fase di registrazione. Questo perché, così come accade per le nostre orecchie quando ci posizioniamo fuori asse o a una certa distanza rispetto a una sorgente sonora, anche i microfoni risentono di una variazione di intensità e di frequenza, sulla base delle proprietà direttive e di sensibilità menzionate nel paragrafo precedente.
Microfonare... questione di creatività!
Partendo da queste basi più o meno scientifiche, durante gli ultimi anni mi sono spesso ritrovato a dover microfonare qualsiasi tipo di strumento: da amplificatori per chitarra elettrica a pianoforti, da chitarre acustiche a fiati, fino ai più complessi ensemble di archi e tanti altri strumenti acustici più o meno tradizionali. Ho anche avuto (per mia fortuna) la possibilità di poter osservare da vicino come lavorano i più grandi produttori internazionali, a cui ho visto inserire microfoni binaurali all’interno di un pianoforte a coda, microfonare degli ambienti con dei microfoni messi negli angoli delle stanze e tante altre stramberie varie, ma sempre finalizzate a ottenere un certo sound. C’è però una particolare analogia in tutto ciò, ovvero, l’attenzione con cui tutti i fonici e i produttori cercano di dare al loro mix un tocco creativo grazie alla microfonazione, in particolare quando lo strumento oggetto dei loro esperimenti è la batteria.
Microfonare la batteria
La batteria è uno strumento acustico molto particolare e complesso. Oltre a essere composto da più pezzi, ognuno con una timbrica diversa, è anche uno strumento che, data l’elevata pressione sonora generata, subisce notevolmente l’influenza dell’ambiente in cui viene registrato. Necessita quindi di un set di microfoni dedicato che può arrivare a essere composto anche da più di 12 microfoni. La configurazione standard più completa prevede dei microfoni con una maggiore direttività sui tamburi (uno per ciascun pezzo del kit), capaci di resistere a un’elevata pressione sonora e di escludere le sollecitazioni provenienti dagli altri pezzi della batteria. A questi vengono aggiunti solitamente un paio di microfoni overhead per i piatti e per gli special e altri due per l’ambiente (o più tradizionalmente room).
Esistono tuttavia diverse varianti a questa configurazione standard, che non è poi così difficile trovare in alcuni mix moderni, utili probabilmente per ridurre quel grado di complessità presente in alcuni brani, rendendoli meno “perfetti” e perciò più interessanti per l’ascoltatore. Less is more... una sorta di ritorno alle origini in cui però, nonostante l’estrema creatività mostrata da fonici e produttori di un certo calibro, è sicuramente importante lasciare spazio alla sostanza, ossia una profonda conoscenza dei microfoni che si intende utilizzare e delle interazioni tra lo strumento e lo spazio che lo circonda.
Tuttavia, per chi è alle prime armi, è sempre difficile poter reperire la giusta quantità di microfoni per poter realizzare una microfonazione completa come descritto. Ragion per cui, vi svelerò come con soli due microfoni è possibile acquisire la batteria senza problemi attraverso un paio di tecniche molto utili, soprattutto in pre-produzione, che nel passato sono state uno standard nei dischi rock più conosciuti.
La tecnica "Glyn Johns"
È la tecnica stereofonica inventata da Glyn Johns (storico produttore tra gli altri di Led Zeppelin, The Beatles, The Rolling Stones, The Who) che consiste nell’utilizzare solo due microfoni panoramici (e quindi capaci di riprendere un’ampia porzione del nostro drum kit) accoppiati e posizionati come segue: il primo sopra il kit, posto in maniera perpendicolare al rullante e a una distanza di due bacchette e mezza (circa 1 metro), e il secondo appena sopra il floor tom, rivolto verso il rullante alla stessa distanza del primo microfono.
Ovviamente una tecnica così “elementare” ha anche dei difetti. Infatti, se posizioniamo correttamente i microfoni, il rullante risulterà perfettamente al centro dell’immagine stereofonica. Tuttavia, questo non è vero per la grancassa, che risulterà spostata verso il microfono del floor tom (a sinistra nell’immagine stereo, guardando frontalmente il kit). Nonostante questo difetto (sicuramente non di poco conto), vi assicuro che se la batteria di John Bonham ha quel tocco lì, è dovuto prevalentemente all’intuizione di Glyn Johns!
La tecnica "Recorderman"
Si tratta dell’evoluzione della più nota Glyn Johns, utilizzata per risolvere il problema della cassa spostata. Mentre il primo microfono è posizionato alla stessa maniera della sua antenata, il secondo viene posizionato in maniera differente. Con uno spago (o un cavo abbastanza lungo), puntiamo un’estremità sul rullante e una sulla cassa, formando un triangolo con il microfono posizionato per primo. A questo punto prendiamo l’estremità così ottenuta e spostiamola fino a superare la spalla destra del batterista, e posizioniamo qui il secondo microfono, rivolto sempre verso il rullante. In questo modo, sia rullante che cassa saranno perfettamente al centro tra i due microfoni. Microfonare la batteria è sicuramente un’arte che necessita di creatività e conoscenza dello spazio che ci circonda. Ci sarebbe quindi molto altro da approfondire ma, ahimé, anche questa volta il nostro angolo recording leaks termina qui. Al prossimo numero con tanti altri tricks sul mondo della produzione!