È il 27 settembre 1970: i Beatles si sono separati più o meno ufficialmente da meno di sei mesi e John Lennon sta raggiungendo gli EMI Studios di Abbey Road a Londra insieme alla moglie Yoko Ono. I due passano direttamente dalle sessioni di psicoterapia in California con il dott. Janov, alle sessioni in studio con Phil Spector per John Lennon/Plastic Ono Band, il primo LP dell’era post Fab Four. È domenica, ma si lavora lo stesso. In pieno stile Lennon, tutto dev’essere completato in poche sessioni, come a voler cristallizzare la singolarità del momento.
Nello studio, ad aspettare la coppia per il secondo giorno di registrazioni, ci sono Klaus Voorman, l’autore delle illustrazioni di Revolver, al basso, e l’immancabile Ringo Starr. Dietro il banco del mitico 8-track di Abbey Road, ci sono appunto Spector, con il suo approccio “back to mono” e la voglia di regalare un album che arrivi dritto in faccia agli ascoltatori, e un team di sound engineer, tra cui Phil Macdonald, Richard Lush, John Lickie, e Andy Stevens. Partono i nastri e John prende a cantare, accompagnandosi alla chitarra acustica con uno strumming lento e profondo che quasi reinventa la tradizione folk: “when you can’t really function, you’re so full of fear / A working class hero is something to be”. In meno di 4 minuti, tante parole forti, accorate, spigolose. Nasce una delle canzoni più brutalmente sincere della storia del rock, un racconto in versi della vita di chi, venendo dal basso e spaccandosi la schiena ogni giorno, porta avanti il mondo. I veri eroi della nostra epoca.
Parliamo di un brano censurato a più riprese per oltre 25 anni a causa dei suoi risvolti politici, ma anche di una prova autoriale che ha travalicato le generazioni conquistando, con il contributo della cover dei Green Day del 2009, il cuore e le orecchie di gran parte dei millennial, nipoti dei primi naturali estimatori.
E così, oggi, "Working Class Hero" rimane un classico di grande attualità, a cui è impossibile non fare riferimento ogni qualvolta ci si voglia raccogliere attorno a una causa sociale comune. Una causa, ad esempio, come quella dei lavoratori dello spettacolo, mai come prima messi alla prova e impegnati duramente nei momenti di massima emergenza legati alla pandemia.
Potrà suonare retorico, ma quanto è immediato, per chiunque si occupi e interessi a qualsiasi titolo di musica, considerare working class hero proprio quelle persone che lavorano dietro le quinte di spettacoli musicali, teatrali e in generale nell’indotto degli eventi? È il loro mestiere a rendere davvero agibile e fruibile lo spettacolo, da una parte per gli artisti, dall’altra per il pubblico. Togliere questi lavoratori dall’equazione vuol dire regalarsi un non-spettacolo, un po’ come il famoso albero dell’adagio cinese, che cade in una foresta in cui non c’è nessuno ad ascoltarne il rumore.
E allora cosa fare? Dobbiamo dare forse una medaglia a queste persone per il valoroso contributo derivante dal fare semplicemente bene il loro lavoro? Ovviamente no. Se chi scrive ha imparato a conoscere bene alcuni di loro, è lecito pensare che una medaglia del genere non farebbe una buona fine. È bene però dedicare a questi lavoratori e alle loro professionalità sempre più pagine e contenuti, affinché si chiarisca l’impatto e il valore delle loro competenze e del loro impegno nel ciclo di vita di ogni spettacolo. Non solo. Dobbiamo, infatti, rendere ancora più stringente il ragionamento. Certo, lo spettacolo è innanzitutto e soprattutto arte: è ciò che avviene sulla scena, tra i quattro angoli di un palco, sul prato, in piazza, nell’orchestra di un teatro e così via.
Nessuno può negarlo. Ma è spettacolo anche la maestranza che allestisce quegli spazi, che manovra o progetta le luci, che permette agli artisti di ascoltarsi adeguatamente e farsi sentire dal pubblico. La dignità è lo stessa, sono due facce di una medaglia che ha lo stesso peso in oro al dritto come al rovescio. Ed è dovere di tutti sottolineare questa pari dignità tutte le volte che si può: il motivo è semplice ed è legato ai più giovani.
Se ogni giorno, in Italia come nel resto del mondo, nuovi chitarristi imbracciano il loro strumento con il sogno di farcela e sfondare come artisti, allora, se la matematica non è un’opinione, molti di loro non sono destinati ad arrivare alla meta. Non possiamo però estinguere le speranze e ambizioni di ragazzi che nascono con un genuino sogno musicale nel cuore. Anche i sogni in musica e nello spettacolo, infatti, devono avere pari dignità tra loro. E allora un mestiere dello spettacolo può e deve essere non un ripiego, ma una valida opzione per ragazzi e ragazze che si affacciano con entusiasmo al mondo delle arti performative.
Da dove partire? Buona norma, guardando proprio al modus operandi di un fonico live, è partire da un check. “1, 2… prova”, per capirci. Un check che è anche e soprattutto una presa di coscienza. Praticare un mestiere nel mondo dello spettacolo, infatti, vuol dire lavorare nella “fabbrica dei sogni”, ma non è affatto semplice trovare la propria stabilità e realizzazione. I motivi sono tanti e concatenati tra loro. Innanzitutto c’è la questione economica. Lo abbiamo visto emergere in maniera drammatica durante la crisi pandemica quando, con il fermo degli spettacoli, tantissimi professionisti si sono visti negare la stagione per loro più redditizia e hanno perciò avuto serissime difficoltà a sbarcare il lunario. Ma, anche al di là delle contingenze complicatissime legate alla massima diffusione del Covid, sono pochi i lavoratori dello spettacolo che possono dire di avere una piena stabilità economica, anche in “tempi non sospetti”. È infatti molto diffuso nel settore il doppio, se non triplo, lavoro, proprio per la necessità di garantirsi un reddito dignitoso. Mantenere i tantissimi spettacoli che si organizzano in Italia accessibili alle tasche della maggioranza degli appassionati ha le sue conseguenze. Si lavora con budget risicati e, spesso, fetta dopo fetta lungo tutta la filiera, quello che arriva nelle tasche dei tecnici sono briciole. Lungi da noi voler creare tensioni tra i tanti attori che giocano un ruolo fondamentale per gli spettacoli dal vivo, ma riflettere insieme su queste problematiche è il primo passo per risolverle.
Al lato meramente economico, si aggiunge e si lega il vuoto normativo che riguarda migliaia di lavoratori dello spettacolo, professionisti di fatto ma spesso non sulla carta. Anche su questo fronte, il Covid non ha fatto che acuire criticità croniche del settore, portate alla ribalta grazie a un ritrovato spirito di collaborazione tra enti di rappresentanza e a un nuovo “vento di rivendicazioni” che ha attraversato tutto il mondo dello spettacolo. Un settore intero di lavoratori privi di riconoscimenti professionali e di adeguate tutele si è mosso chiedendo conto dei propri diritti e portando alla luce dinamicità, competenze, peso in termine di fatturati generati, ricadute sui territori e impatto socio-culturale sul sistema Paese.
Qualcosa si è mosso, visto che si è arrivati alla legge del 15 luglio 2022, n. 106, che ha delegato il Governo ad adottare, entro nove mesi dalla pubblicazione, importanti provvedimenti di riforma e riordino anche in materia di contratti di lavoro nel settore dello spettacolo, di equo compenso per i lavoratori autonomi dello spettacolo, di ammortizzatori e indennità, compresa l’introduzione di un’indennità di discontinuità. Chiaramente con un nuovo Governo a Palazzo Chigi è lecito e normale aspettarsi un po’ di incertezza sul futuro di quella legge delega.
Anche per questo, chi scrive si augura non si perda lo spirito e l’unione di intenti creatisi tra 2021 e 2022, per tenere alta l’attenzione e non tornare alle tante divisioni o all’endemica mancanza di tutele e sicurezze che caratterizzavano il settore in era pre-Covid, al di là di ciò che il legislatore deciderà. Sarebbe anzi auspicabile compiere passi ulteriori nella direzione dei giovani che accedono a queste professioni. Questi, infatti, sono i più fragili economicamente e, per necessità e ristrettezze, fanno presto a reinventarsi in altri settori, più stabili ma lontani dal loro sogno in musica e spettacolo. Uno spreco! Un altro aspetto del quale è bene prendere consapevolezza è la scarsa conoscenza delle professioni dello spettacolo al grande pubblico. Molto banalmente, infatti, non si può promuovere qualcosa che non si conosce. D’altro canto, l’obiettivo di chi sta nelle quinte è anche farsi vedere il meno possibile, quindi è quasi naturale il pubblico non sappia riconoscere le figure professionali che permettono a un qualsiasi evento di funzionare. Questo assunto deve, almeno in parte, cambiare. È assolutamente necessario stimolare la curiosità di chi potrebbe costruirsi una professionalità come tecnico nel mondo dello spettacolo e, contemporaneamente, sensibilizzare il pubblico sulla presenza di questi “eroi silenziosi”. Lo si sta facendo a sufficienza? Da questo punto di vista, è stato sicuramente uno spartiacque in positivo, in Italia, il docu-film The Dark Side of the Show, nato da un’idea del tour manager Max Martulli e diretto da Francesco Dinolfo. Nel documentario, in 47 minuti, Manuel Agnelli racconta la ”macchina” complessa dello spettacolo, composta non solo dagli artisti che si esibiscono su un palco, ma da migliaia di “ingranaggi” in equilibrio ancor più precario del solito a causa della pandemia. Il film si è chiaramente posto nell’alveo di una tradizione rappresentata in Italia, ad esempio, dal docu-film Da grande voglio fare Diego Spagnoli (2008) di Gigi Tufano e, nel cinema documentario anglofono, da titoli come Sound City (2013) di Dave Grohl, e ha il merito, tra le righe di un racconto molto emozionale, di evidenziare l’esistenza e l’importanza di diversi mestieri del backstage sconosciuti a molti. Il documentario, però, non deve rimanere un’iniziativa isolata.
Bisogna popolare di rigger, scaffolder, climber, mulettisti, fonici di palco, tecnici luci, elettricisti teatrali, light designer, i luoghi dove oggi si formano i sogni e le aspirazioni dei ragazzi: il Web e i Social, prima di tutto. Se, ad esempio, Andrea Moccia e Geopop hanno reso le scienze una materia interessante e fruibile al ritmo della comunicazione digitale, lo stesso deve avvenire per il mondo dello spettacolo, anche e soprattutto nel suo versante più oscuro, quello tecnico.
Blogging, vlogging e podcasting devono investire il terreno ancora paradossalmente vergine delle industrie dello spettacolo, renderle pop, per il bene di una Show Class in cerca di nuovi eroi. È un mestiere difficile, ma è tutto ciò che chiede chi ama visceralmente la musica e lo spettacolo.