Compositore, produttore, musicista, Dardust è artista tout court. Nel 2022, con Duality, ha aggiunto una nuova pietra miliare a un viaggio di sperimentazioni, concept, collaborazioni. La sua professionalità e creatività sfuggono alla dualità che si è imposto come cifra stilistica nel suo ultimo LP.
Insieme abbiamo parlato di sound, processi creativi e tanto altro.
Ciao Dario e benvenuto su SMMAG!. Inevitabile partire dall’attualità e dal tuo nuovo album Duality. Come nasce l’idea di tenere separate in maniera mai così evidente prima le tue due anime musicali, il piano acustico e l’elettronica?
Perché è una cosa che non avevo fatto prima: nei precedenti dischi avevo sempre cercato di unire e trovare un immaginario sonoro comune tra il piano e l’elettronica, unendolo a concept sempre diversi, legati ai paesaggi sonori. Con 7 ero partito dalla Berlino dei Depeche Mode, della trilogia berlinese, degli Hansa Studios dove Bowie ha registrato Low e Heroes (e Lodger, ndr), di Achtung Baby degli U2, per arrivare all’Islanda dei Sundlaugin Studios con i Sigur Rós. Ogni luogo aveva contribuito alla creazione per me di una sorta di perimetro creativo entro cui muoversi, come avvenuto poi anche con Edimburgo e Londra per Storm And Drugs. Con Duality, su uno sfondo paesaggistico giapponese e filosofico, ho cercato di dividere assolutamente il piano e l’elettronica, di non farli incontrare mai, portando agli estremi queste due anime: da una parte, un piano iper-minimale, dall’altra un’elettronica piena di colori e suggestioni diverse.
Dove trovi la materia con la quale colorare la tua tela compositiva? Quale arte contamina di più il tuo sound?
Forse il cinema e le colonne sonore. In Duality la suggestione cinematografica è molto presente sia sul lato pianistico che elettronico, con tanti riferimenti: i Goblin, Giorgio Moroder, Carpenter, Joe Hisaishi, compositore di tante soundtrack per anime e lavori del maestro Miyazaki. La musica per il cinema è più libera, meno legata alla forma e al minutaggio, dà vita a opere più fluide che mi ispirano molto nell’approccio alla composizione.
Raccontaci un po’ l’esperienza in studio e le sessioni per il tuo ultimo disco.
Per il piano solo mi sono trovato con Taketo Gohara alla Casa degli Artisti a Milano. Abbiamo affittato un piano che ci è stato portato da Bressanone, lo abbiamo microfonato e, in una settimana, ci siamo dati l’obiettivo, poi raggiunto, di scrivere tutti i temi del disco. Poi quei 10 temi sono stati rimaneggiati e rielaborati un po’ nel tempo, per essere alla fine registrati al Forum a Roma, che è stato il tempio di Morricone e tanti altri. Fa eccezione Inno (Prologo) che ho ri-registrato da casa. Per la parte elettronica invece ho lavorato a tutto nel mio studio a casa, in vari step nel corso di un anno (anche in una Milano deserta di ferragosto ero qui a lavorare al disco). Potrei dire di aver sempre cercato delle situazioni di isolamento, perché mi porta a dare il meglio di me.
La tua musica dialoga molto bene con la contemporaneità in generale, tanto da aver accompagnato eventi mediatici pazzeschi come la cerimonia di chiusura di Beijing 2022 o il lancio di un iPhone. Qual è il tuo approccio nel musicare eventi come questi?
Dipende dai casi, ma cerco sempre di partire dal mio repertorio o da ciò che sto facendo artisticamente in quel determinato momento e di adattarlo ai vari contesti, un lavoro per me molto stimolante. La sonorizzazione per l’iPhone era un pezzo di S.A.D. poi riadattato, idem per lo spot dell’HalfTime Show al Superbowl. Per le Olimpiadi, ho preso due pezzi che in Duality sono separati, Inno e Hymn, e li ho ricomposti insieme. Parto da presupposti legati a un determinato evento per portarli dentro il mio lavoro e viceversa.
Un paio dei tuoi punti di riferimento a livello artistico sono chiarissimi a partire dal moniker che hai scelto. Hai dei maestri anche a livello tecnico nella musica?
Uno sicuramente è John Hopkins, un producer inglese che ha sempre fatto dei quick results un suo punto fermo. Da lui ho appreso una certa attitudine alla sintesi. Nel mio studio ci sono tantissimi sintetizzatori, ho una pedaliera con una miriade di effetti. Ogni mese escono migliaia di nuovi plug-in, quindi ho a disposizione una mappa sonora gigantesca nella quale ci si potrebbe facilmente perdere. L’approccio di John Hopkins è sempre stato quello di selezionare pochi strumenti, spesso più digitali che analogici, accorciando molto i tempi di produzione, cosa che cerco di fare anche io lavorando veloce e sintetizzando il tutto per arrivare al risultato. Poi di maestri ce ne sono tanti e ognuno mi ha lasciato qualcosa. Potrei citare per la composizione Morricone e Sakamoto e, sul lato tecnico pianistico, il tedesco Nils Frahm.
Autore-Etichetta-Artista esecutore, la triade su cui si è fondata gran parte della storia della musica pop in Italia e non solo. Come sono cambiate oggi le dinamiche tra queste tre entità?
Forse la triade semplifica troppo. Più che singolo autore ci sono vari autori, spesso uno di questi è anche un po’ producer e impacchetta il suono già in session, come capita a me. In zona Etichetta ci sono più figure a orbitare: c’è l’A&R, ma anche il manager che segue l’artista, e insieme contribuiscono a mediare sulle sue esigenze. Quanto al cambiamento nelle dinamiche, prima il cerchio era più ristretto, un sistema in cui era difficile entrare per un producer emergente. Oggi tanti piccoli produttori e artisti, lavorando bene dal basso, mettono brani in streaming, raggiungono la viralità nei modi più disparati e scavalcano un po’ la catena. Diventano fenomeni rilevanti in autonomia e solo dopo vengono firmati dall’etichetta. Questo metodo più democratico legato allo streaming per me è positivo. Ci sono tanti più competitor, quasi un sovraffollamento di emergenti, che si impongono per meriti propri senza passaggi obbligati.
Sei il secondo artista ascolano che intervistiamo; evidentemente non si parla abbastanza delle potenzialità musicali della provincia italiana. Come sono stati i primi anni del tuo percorso musicale?
Sono stati anni di studio all’Istituto Musicale Spontini, dove hanno studiato anche Saturnino e Giovanni Allevi, con ore e ore di lezioni, esercitazioni, saggi, che alla fine sono sfociati in una nuova passione per i sintetizzatori e nella creazione del mio primo home studio che era nella mansarda della mia casa in paese, in campagna. Lì ho vissuto fino ai 18 e poi ci son tornato per tre anni tra i 20 e i 30. Era il mio quartier generale, dove ho iniziato a sperimentare e a scrivere i miei primi brani strumentali, fino a essere notato fuori e a trasferirmi prima a Roma e poi a Milano. È stato un lungo giro e gli anni di Ascoli sono stati quelli della ricerca, della sperimentazione, talvolta della frustrazione per quello che vedevo avvenire in altri luoghi e della voglia di uscire fuori e farcela a tutti i costi.
Qual è il tuo rapporto con gli spazi musicali, con il tuo e altri studio?
Il mio studio a Milano è in realtà composto da due parti separate: una totalmente analogica a livello di sintetizzatori, effetti, ecc. mentre l’altra è decisamente più digitale. I viaggi fuori dal mio studio portano delle suggestioni che sembrano non essere concrete, come degli schizzi di cui non si comprende bene cosa fare. Qui a Milano riesco a ottimizzare, so come muovermi e a fine giornata riesco a concludere sempre qualcosa. Andare però fuori è fondamentale: esci dalla zona comfort, non hai tutte le tue macchine e non puoi esprimere le tue skill al 100%. Questo ti permette però di aprire la mente e tornare rinnovato nel tuo studio. A volte infatti vivo quest’ultimo come una gabbia e specie durante la pandemia è stato così, tant’è che ora sento l’esigenza forte di partire e raccogliere nuovi colori fuori.
Qual è il tuo rapporto con gli strumenti? Provi molte cose nuove durante l’anno o sei tipo da “squadra che vince non si cambia”?
Io devo cambiare sempre perché dopo un po’ mi saturo. Chiaramente, quando compro il Moog One o il Prophet 5 che è un synth vecchiotto, ci voglio passare un po’ di tempo per sviscerarli al meglio. Sul fronte Virtual Instruments e sul campionamento con Splice cerco sempre di essere stra-aggiornato: appena esce qualcosa di nuovo, voglio provarlo e indagarlo a fondo. Il che può essere anche frustrante perché tentare di conoscere approfonditamente uno strumento è un investimento di tempo non indifferente e, quando sei nel pieno di un workflow, non sempre hai modo di farlo. Per questo cerco di ritagliarmi dei giorni da dedicare esclusivamente al “sound plugging”, all’andare a catturare nuove atmosfere e nuovi suoni. In buona sostanza, ogni tre mesi devo rinnovare e cambiare l’approccio di partenza.
Chiudiamo con tre suggestioni: un ascolto, uno strumento e un’influenza “oltre la musica” da consigliare
Oltre la musica direi la seconda stagione di Euphoria. Penso sia una delle serie TV più riuscite del decennio, se non di sempre, perché sia da un punto di vista delle immagini che del commento musicale, con la colonna sonora di Labrinth, è un’opera d’arte. Ogni passaggio è stra-futuribile e incredibile sul piano estetico. A livello di ascolto, segnalerei gli ultimi due dischi di Fred Again che è un producer pazzesco, a cavallo tra Moby e la nuova generazione Electro. Tra gli strumenti forse direi gli Astra Presets, con i quali prendi alcuni suoni da Splice e li trasformi quasi fossero un virtual instrument. Ci sono tanti suoni super interessanti, davvero un caleidoscopio di possibilità.