Ciao Vince e benvenuto su SMMAG! Come si vivono le ultime settimane prima di un tour importante come Vasco Live XXIII?
È il culmine nella realizzazione di un lavoro che viene da lontano. lo inizio a pensarci già a settembre. A ottobre sono al computer a mettere giù idee di scaletta/provini che vanno capiti, presi in esame, presentati a Vasco, ecc.; arrivo qui con tanta voglia di concretizzare tutto quello che è stato per mesi solo computer e, in un certo senso, esercizio personale di stile, essendo inizialmente idee tutte mie. Non avendo un grande ego cerco anche confronti. È vero che sono un po' un precisino e quindi presento ai ragazzi degli "appunti" che non hanno tantissimo margine, però mi aspetto da loro, che sono gli specialisti, l'upgrade. Sarebbe triste altrimenti sentire esattamente l'idea che si ha nella testa. Mi sento molto felice, anche se è faticoso: proviamo tutto il giorno perché il repertorio è complesso e ogni anno aumentano le ambizioni, dal punto di vista degli arrangiamenti e della produzione. Questo vuol dire ovviamente per tutti studiare moltissimo: a volte metto in difficoltà me stesso e un po' anche gli altri. Ma sono tutti molto bravi e collaborativi, c'è stima e non c'è nessun problema a dirsi le cose in faccia, sempre in maniera professionale.
A livello di produzione musicale c'è sicuramente un'idea generale che poi guida ogni intervento sui brani e sui suoni. Qual è la tua idea oggi?
Sono arrivato alla conclusione che ognuno dev'essere coerente con se stesso. Nel 2018, non avevo ancora questa consapevolezza, l'ho sviluppata nel tempo e ho cercato di essere coerente al mio approccio musicale. Per esempio, io amo la musica elettronica, ne ascolto davvero tanta, ma la mia propensione è per il suonare, per l'essere musicista, produttore che imbraccia lo strumento e non producer. E allora sto cercando di spingere su un concetto che, tra l'altro, ho compreso nel tempo che piace anche a Vasco: il minimalismo. Mi piace fare cose con poco. Arrangio per pochi elementi, senza disdegnare l'orchestrazione, lo strumentale, talvolta chitarristico. Non tanto quello virtuoso quanto quello d'atmosfera. Un'altra cosa che ho capito di me stesso è che non mi piace tanto il fifty-fifty, la musica che cerca la via di mezzo. Gli ascolti che mi rimangono davvero non sono mai così: o i Depeche Mode o i Rolling Stones, per capirci. Devo seguire la mia propensione e il sound sta diventando più asciutto, minimale, con qui e lì delle sorprese: intro quasi "morriconiane" e delle pillole in cui viene fuori la mia anima ambient e orchestrale, che viene dalla passione per Arvo Part, Max Richter e altri. Per spezzare la tensione e, come una fionda, rilanciare le emozioni in maniera ancora più "violenta".
Prima di maturare questa visione del ruolo della chitarra moderna, hai avuto, all'inizio del tuo percorso, una fascinazione per qualche band o chitarrista virtuoso da imitare?
Mi sono sempre piaciuti i chitarristi con una verve anni '70, con un virtuosismo alla pentatonica più che sinfonico. Tranne forse Randy Rhoads di Ozzy Osbourne che è stato tra i primi sinfonici. Fin da piccolo comunque per me ha sempre comandato il brano e chi era virtuoso in maniera funzionale al brano, non tanto per far vedere. Senza brano, intendo anche come cantato, tendo ad annoiarmi. Quindi al di là di Jeff Beck, Jimi Hendrix e i soliti, gli altri mi hanno sempre annoiato un po'. Detto questo, io sono partito con i Pink Floyd e sono ancora lì. Sono andato pochi giorni fa a vedere Roger Waters a Bologna: un ottantenne il cui spettacolo ha tutto, la musica, l'arrangiamento, i video, la produzione, un livello che davvero pochissimi raggiungono. Anche nei periodi in cui ero un po' più preso dal virtuosismo, verso i 17 anni, e seguivo molto Zakk Wylde, lui mi riportava verso la melodia, quella che funziona anche sul disco, chiudendo gli occhi, senza guardare i video. L'assolo bisogna cantarlo, dev'essere quasi un prolungamento della parte vocale, a mio avviso.
Come si arriva a una visione più "sonica", distaccata dal virtuosismo e legata a una continua ricerca di nuovi suoni?
Quando sei giovane, cerchi anche un po' di emulare, sei un puzzle da formare, lo fai istintivamente. A 15, 16 anni è giusto che sia così, penso lo facciano in molti. La bravura sta nello staccarsi col tempo, prendere solo delle nozioni, per poi spostarsi e subito magari emulare qualcun altro. È proprio questo puzzle che forma il percorso chitarristico. Purtroppo c'è anche chi rimane sempre fermo a un chitarrista fino a diventarne un clone, anche un po' patetico. Capisco che però non è sempre un cordone ombelicale facile da tagliare e in fondo c'entra la personalità che hai, in tutti gli ambiti della vita. Se uno ha carisma e personalità, di qualsiasi cosa si occupi, cerca di imporsi. Fino ai 30, il chitarrista bravo per me è chi è un puzzle di cultura chitarristica. Dopo i 30, si dovrebbe parlare di cultura musicale. Non puoi limitarti a essere un gran chitarrista, devi diventare un gran musicista, con una conoscenza profonda di tanti gruppi e artisti.
Tu come ci sei arrivato?
Per me il passaggio a un discorso "sonico" è arrivato quando ero a Bologna e lavoravo con Carboni. È stato il primo a invogliarmi a usare gli effetti perché avevamo delle parti tastieristiche che non volevamo inserire nelle sequenze e che quindi andavo a ricreare riarrangiando sulla chitarra. Lì ho preso quella via e, oltre a essere il chitarrista acustico, ero quello un po' ambient e sperimentale. Volendo continuare a lavorare con le grandi produzioni, mi sono fatto una domanda molto seria. Ha senso emulare Michael Landau, se i budget a questi livelli permettono di ingaggiare l'originale? Mi sono reso conto che era invece richiesta quella cultura che iniziavo ad avere e che avevo sicuramente bisogno di sviluppare. Da quel momento ho iniziato a studiare sempre meno la tecnica, qualcosa di massacrante per me, e dedicarmi all'approfondimento della musica post-rock, ambient, a chitarristi come Robert Fripp e Jerry Leonard. Ho fatto anche dei dischi in quell'ottica che, in Italia, non ha un grande seguito. Ho però conosciuto Guido Elmi (produttore storico di Vasco Rossi, Ndr) e lui non stava cercando un chitarrista per la band di Vasco, ma una spalla per arrangiare cose. E la cultura musicale è stata la mia fortuna con lui, perché Guido non ti chiedeva di suonare una scala misolidia, ma ti diceva piuttosto "fammi una chitarra alla Sister of Mercy, un riff alla Television". Negli ultimi anni sto cercando anche di fare un sunto, magari tornando anche a un chitarrismo più classico, sempre legato agli anni '70, senza eccedere né in un senso né nell'altro.
Nel 2014, quando hai collaborato per la prima volta ai live di Vasco, sei passato alle pedaliere digitali. Ti sei spinto ancora più in quella direzione o sei tornato anche ai "pedalini" analogici?
Sì, nel 2014 avevo la Boss GT-100, che ho ancora e alla quale sono molto affezionato. A Modena Park avevo la Helix della Line 6. Per me si tratta di un'arma di comodo che ho iniziato a usare con Carboni, perché per quel set c'è bisogno di una miriade di effetti. Si tratta di scendere a compromessi per guadagnare in funzionalità. Usavo anche le emulazioni di pedali e l'ampli come piattaforma neutra. Per il pop il digitale è ottimo e forse io non scomoderei l'analogico per un ambito in cui la chitarra è meno in evidenza. Per il rock però non ce n'è. La ciccia dev'essere dell'ampli e io ho raggiunto questo equilibrio. C'è stato un momento in cui ero diventato un programmatore ma, durante il Covid, ho avuto una sorta di crisi esistenziale e ho detto basta al digitale. Anche perché ero entrato in un'ottica sbagliata e non distinguevo più tra il disco, dove le sfumature si colgono tutte, e il live dove non si riesce così tanto, quindi forse non è il caso di esaurirsi troppo con le finezze. Bisogna pensare a suonare. Ho messo giù quattro pedali a terra, giusto quelli necessari a dare un po' di magia in più in qualche punto e via.
Tu sei stato da quel che mi pare di capire un grande fenderiano. Per Vasco Live XXIII però hai scelto Gibson. Come scegli le tue chitarre oggi?
Sono stato un fenderiano della prima ora, perché i miei primi ascolti portavano tutti in direzione Strato o Tele. Poi un po' con i Led Zeppelin e con l'esplosione dei Guns 'n Roses, ho iniziato anche a conoscere e apprezzare il mondo Marshall. Oggi la chitarra che imbraccio deve piacere a me, deve convincermi il suono, ma dev'essere funzionale al mix. Vi faccio un esempio: alle prove avevo con me due Gibson. Una Melody Maker customizzata su cui ho messo due humbucker, squillanti, fatti a mano che ricordano davvero quei suoni seventies, che erano più acidi, diversamente dal suono Les Paul degli anni '90 un po' più chiuso. Una presenza incredibile che ci aveva molto soddisfatti. Avevo però con me anche la Junior originale del '56 con il classico P90, che avevo usato l'anno scorso e con la quale mi trovo da dio. Un solo pick-up, tutto il lavoro da fare con volume e tono. Al fonico Corsellini (Andrea, Ndr) ho chiesto di registrare un'intera scaletta con quella.
La Junior, avendo meno input rispetto alla chitarra con l'humbucker, ti costringe un po' "a farti il culo" nel suonarla, ma ha anche un attacco che è quasi a metà strada tra una Les Paul e una Telecaster, che ti garantisce una gran presenza. E riascoltando il mix senti come la Junior ha delle frequenze che vanno a compensare quelle di Stef, specie in quei riff che suoniamo all'unisono che, in un concetto di live rock, con le chitarre avanti, nell'addizione riesci a valorizzare. Ora, forse un chitarrista normale se ne sbatterebbe e ragionerebbe soprattutto sullo strumento con cui si trova meglio. Ho speso tanti soldi per customizzare la Melody Maker, anche per la soddisfazione. Però quando senti questo suono mastodontico di due chitarre che suonano come una sola, fai altre valutazioni. Come per gli AC/DC con Malcolm Young che era più crunch con la sua Gretsch e Angus, con la Gibson SG, un po' più scavata nelle basse ma tanto aggressiva, che tiravano fuori un chitarrista unico con un supersuono.
Non hai mai abbandonato percorsi di sperimentazione personale. C'è stato il noise-blues di Malacarna, ora il lavoro con i Noisebreakers e tanto altro. Quanto ti porti dei progetti personali nelle tue attività di turnista e produttore?
Ogni tanto con Vasco ne parliamo. Il fatto che io abbia sempre avuto nei weekend un gruppo che ti permette nei piccoli club di avere un rapporto diretto con il pubblico, qualcosa che da casa o anche andando a vedere i concerti grossi non comprendi, conta. Anche se posso suonare un po' indelicato, spesso ho usato le produzioni e i progetti minori - nel senso della fama, eh, i pezzi sono artisticamente validissimi e scritti da cantautori con tanto talento - come tester per sviluppare cose che ho poi riportato da Vasco. Ho cercato di capire se funzionassero innanzitutto lì. Esempio specifico: la coda di ramare l'amore nel disco sfuma. Poi coi Noisebreakers abbiamo iniziato a suonare dal vivo Freebird dei Lynyrd Skynyrd con la sua coda infinita ed era sempre il momento del concerto più sentito dal pubblico. Allora mi son detto "vediamo cosa succede se applico la stessa cosa a ramare l'amore" ed è stato un successo incredibile. Ma se non avessi avuto modo di tastare la reazione istintiva del pubblico con Freebird non mi sarebbe venuto in mente. Quella cavalcata finale trascina. C'è un po' di circoì Sì. Un po' di estetica? Pure, ma di gran gusto con le chitarre che si intrecciano.
Quanto pensate alla location nel preparare gli arrangiamenti per il tour? Ragionate anche sulle arene che verranno toccate dalle diverse date?
Non facciamo ragionamenti così specifici sui diversi stadi. Sicuramente c'è un attenzione sulle frequenze e sulle peculiarità che uno stadio ha, in generale, da un punto di vista acustico rispetto a un parco. Ma non sono discorsi che coinvolgono la pre-produzione. L'importante è che tutto sia pura arena rock, il genere che i Queen erano bravissimi a fare. Quindi molto appariscente sia da un punto di vista estetico e visivo, che da quel lo del le specifiche scelte musicali. Un'altra strada può essere quella dei Pink Floyd, ma ci vogliono dei contenuti da ogni punto di vista, testuale, audio, video, pazzeschi. Altrimenti capita di vedere situazioni sbilanciate, con produzioni live di altissima qualità, ma una produzione musicale alla base e dei contenuti in generale un po' deboli, sole, cuore, amore, ecc. Quando fai rock, e qui torno a casa mia, negli stadi devi fare quel rock lì, devi far divertire la gente, farla urlare. Ma lo puoi fare solo se sei Vasco Rossi, perché c'hai il pezzo malinconico e quello che esplode, magari di denuncia. E quanti nel mainstream in Italia hanno in scaletta una "C'è chi dice no" o "Gli spari sopra"?